Benefit aziendali: carte prepagate

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Un recente caso analizzato dall’Agenzia delle Entrate ha messo sotto i riflettori l’utilizzo delle carte prepagate come benefit aziendali. Il caso qui sotto.

Cosa succede con le carte prepagate come benefit aziendali
Benefit aziendali: carte sotto la lente

Negli ultimi anni, il panorama del welfare aziendale si è arricchito di soluzioni innovative pensate per migliorare il benessere dei dipendenti e fidelizzare i talenti.

Le imprese, sempre più orientate a politiche di incentivazione personalizzate, affiancano ai classici buoni pasto o gift card una varietà crescente di strumenti, tra cui carte prepagate e di debito ricaricabili.

Queste opzioni, per quanto appaiono pratiche e moderne, sollevano però interrogativi importanti in materia fiscale.

Il quadro normativo che disciplina i fringe benefit, quei vantaggi offerti ai lavoratori al di fuori della retribuzione monetaria,

richiede infatti il rispetto di criteri ben precisi per poter garantire l’esenzione da imposte.

C’è un caso analizzato dall’Agenzia delle Entrate che ha messo nuovamente sotto i riflettori l’utilizzo di queste carte, offrendo spunti di riflessione utili per aziende e professionisti del settore.

Continuate a leggere per vedere cosa ci dice l’Agenzia delle Entrate.

Altrimenti cliccate qui per sapere cosa succede in caso di accertamenti sui conti correnti da parte dell’AdE.

Quando una carta non è più un benefit esente

L’occasione per fare chiarezza è arrivata con la risposta a interpello (n.904-318/2025) in cui un’impresa chiedeva se una carta di debito, ricaricata dal datore di lavoro e utilizzabile solo presso una rete di esercizi convenzionati italiani, potesse essere trattata fiscalmente come un buono pasto.

Nonostante l’assenza di funzionalità per il prelievo di contanti, l’Agenzia delle Entrate ha negato l’esenzione.

La motivazione?

La rete di utilizzo era troppo ampia e poco delimitata, rendendo la carta simile a un normale strumento di pagamento.

Inoltre, mancavano elementi distintivi, come un logo evidente, che permettessero di identificare chiaramente dove e come spendere il credito.

In sostanza, lo strumento non rispondeva ai requisiti richiesti per essere considerato un “documento di legittimazione”, e i fondi caricati risultavano quindi parte del reddito da lavoro, con conseguente tassazione.

Regole precise per evitare brutte sorprese

Il caso in questione rappresenta un campanello d’allarme per tutte le aziende che intendono offrire ai propri collaboratori strumenti di welfare non soggetti a imposte.

Affinché un benefit sia realmente esente, è fondamentale rispetto alcune condizioni imprescindibili:

  • deve essere finalizzato all’acquisto di beni o servizi specifici, non denaro;
  • non deve permettere operazioni di prelievo o trasferimento di fondi;
  • deve essere utilizzabile presso una rete chiusa e ben definita di fornitori;
  • è preferibile che i punti vendita siano identificabili visivamente, ad esempio tramite un logo;
  • occorre documentazione completa e chiara da parte del fornitore che ne certifichi l’idoneità.

L’Agenzia delle Entrate si dimostra particolarmente prudente verso le soluzioni ibride, ovvero quei benefit che non rientrano con chiarezza nelle categorie esenti.

Per questo, ogni scelta deve essere attentamente valutata, anche con il supporto di consulenti esperti, così da evitare errori che potrebbero trasformare un vantaggio fiscale in un costo imprevisto.

La strada per il welfare aziendale efficace passa anche da una conoscenza approfondita delle regole fiscali.

Le carte possono rivelarsi strumenti utili, ma solo se selezionate con attenzione e in conformità alla normativa vigente.

In un contesto in cui la linea tra benefit e retribuzione si fa sottile, essere informati fa la differenza.

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