Una recente decisione della Corte di Cassazione riscrive le regole del licenziamento durante il periodo di
prova, aprendo nuove possibilità per chi ritiene di essere stato allontanato troppo in fretta. Qui sotto i dettagli.

In un mondo del lavoro sempre più flessibile, o precario, dipende dai punti di vista, il periodo di prova rappresenta una fase delicata.
È una sorta di test reciproco, in cui datore e lavoratore si valutano a vicenda.
Quando si firma un contratto con patto di prova, lo si fa consapevoli che il rapporto può interrompersi senza grandi formalità.
Si tratta, infatti, di una fase in cui entrambe le parti hanno ampia libertà di recesso.
Tuttavia, questa libertà non è illimitata né priva di regole.
Ma se fino ad oggi questa fase era considerata una sorta di “terra di nessuno”, ora le cose cambiano.
La Suprema Corte, con un’importante pronuncia, stabilisce che anche in prova esistono diritti precisi e tempi meno rigidi per farli valere.
Continuate a leggere per sapere i dettagli del caso.
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Periodo di prova e licenziamento – il caso
Una delle principali differenze tra il periodo di prova e i contratti “a regime” è proprio sui termini per impugnare un eventuale licenziamento.
Per i licenziamenti ordinari, il lavoratore ha 60 giorni per contestare formalmente la decisione.
Ma per quelli avvenuti in prova? Qui entra in gioco l’intervento della Cassazione.
IL CASO
Un lavoratore era stato assunto con un periodo di prova di 60 giorni.
Dopo poche settimane, è stato allontanato senza troppi preamboli.
Ha provato a trovare una soluzione amichevole, ma senza successo… così si è rivolto al giudice.
Il Problema?
L’impugnazione è arrivata dopo ben 6 mesi. Troppo tardi, hanno detto i primi due gradi di giudizio.
Caso chiuso.
Ma non per la Cassazione.
Con l’ordinanza n. 9282/2025, la Suprema Corte ha deciso di rimettere in discussione tutto.
E lo ha fatto chiarendo un principio fondamentale.
Nessun termine di 60 giorni per il licenziamento in prova
Secondo quanto stabilito dalla Corte, il licenziamento durante il periodo di prova non è assimilabile, in senso tecnico, a un vero licenziamento.
Non si sta interrompendo un rapporto consolidato, ma si sta esercitando una facoltà già prevista nel contratto stesso.
In altre parole, non si tratta di un “recesso disciplinato”, bensì di un diritto contrattuale, quasi “automatico”.
La conseguenza?
Non si applicano i rigidi termini dei 60 giorni per impugnare il recesso.
Il lavoratore ha più tempo per contestare, se ritiene che il licenziamento sia avvenuto in modo scorretto o al di fuori dei limiti fissati dalla legge.
La Cassazione non ha deciso sul merito, ma ha rimandato tutto alla Corte d’Appello, con l’invito a rivedere il caso alla luce di questo principio.
La posta in gioco è alta: non solo per quel lavoratore, ma per tanti altri che si sono trovati (o si troveranno) nella stessa situazione.
Cosa cambia per lavoratori e aziende?
Per i lavoratori, la novità è significativa.
Non serve più correre contro il tempo per contestare un licenziamento in prova.
Se ci sono motivi validi, come la violazione delle regole sul patto di prova, o un comportamento scorretto del datore, sarà possibile ricorrere anche oltre i due mesi canonici.
Per i datori di lavoro, invece, arriva un monito importante: il periodo di prova non è una zona grigia.
È vero che il recesso è più semplice, ma non può essere arbitrario.
Il patto di prova deve essere redatto con cura, rispettare la legge ed eventuali decisioni di recesso devono fondarsi su criteri trasparenti e legittimi.
La decisione della Corte riafferma un principio fondamentale del diritto del lavoro: anche nel periodo di prova, la dignità e i diritti del lavoratore devono essere rispettati.
Il recesso non può trasformarsi in un pretesto per discriminazioni, abusi o leggerezze.